Dott. Francesco Giacomo Caldana
Il contratto di credito ai consumatori ha per oggetto un finanziamento per l’acquisto di beni o servizi per esigenze puramente personali e non inerenti all’esercizio di un’attività d’impresa.
Detto credito può essere compreso tra euro 200,00 ed euro 75.000,00 ed è concesso da una banca, tendenzialmente per mezzo dell’attività di mediazione di una società finanziaria appositamente autorizzata.
I costi del finanziamento possono essere suddivisi in commissioni (come, per esempio, i costi per l’apertura e la chiusura della pratica) e interessi.
Gli interessi sono da suddividersi nel TAN (Tasso Annuo Nominale), che indica il tasso puro in percentuale sul credito connesso e su base annua. Esso non comprende spese o commissioni e non rappresenta il costo totale del finanziamento, espresso, diversamente, dal TAEG (Tasso Annuo Effettivo Globale): a mero titolo esemplificativo, un prestito con TAN pari a zero potrebbe avere un TAEG molto elevato.
Il TAEG è espresso in percentuale sul credito concesso su base annua e comprende tutti i costi che il consumatore deve sostenere (è un indice armonizzato nella Comunità Europea).
In ogni caso, il TAEG non comprende eventuali clausole penali e interessi di mora qualora il consumatore non adempia al versamento delle rate, nonché le spese aggiuntive al momento dell’acquisto, quelle notarili e quelle per i servizi accessori facoltativi (polizze assicurative non necessarie).
Il TAEG deve essere sempre indicato nella documentazione informativa e nel contratto.
Il contratto è indubbiamente nullo per violazione di norme imperative ai sensi dell’art. 1418, comma 1, c.c. qualora allo stesso sia applicato un tasso di interesse di usura, che viene stabilito – in via presuntiva – dalla Banca d’Italia ogni trimestre mediante pubblicazione dei tassi medi delle operazioni di finanziamento. Non si reputa nemmeno necessario sollevare dubbi in ordine alla natura imperativa di dette disposizioni, essendo assolutamente vincolanti per le parti contrattuali.
Per ottenere la soglia di usura “presunta”, è necessario aumentare i summenzionati tassi medi di un quarto e aggiungere altri quattro punti percentuali: a titolo esemplificativo e senza pretesa di esaustività, se il tasso medio è del 10%, quello di usura sarà quello del 18%.
Ai fini della determinazione della soglia di usura, regolata dalla L. 108/1996, è necessario sommare ai meri tassi di interesse “semplici” (TAN), tutte le spese, i costi per la definizione del contratto, le commissioni (incluse quelle di massimo scoperto nei c/c), e la capitalizzazione degli interessi (come, ad esempio, la capitalizzazione trimestrale). Al fine del calcolo del tasso, la legge include anche gli interessi di mora su rate scadute.
Recentemente, la giurisprudenza di legittimità ha precisato che ai fini del superamento del “tasso soglia” previsto dalla disciplina antiusura, non debba essere considerata come voce di costo la commissione di estinzione anticipata del finanziamento, non costituendo quest’ultima una remunerazione, a favore della banca, dipendente dalla durata dell’effettiva utilizzazione del denaro da parte del cliente, bensì un corrispettivo previsto per lo scioglimento anticipato degli impegni a quella connessi (Cass. Civ. Sez. I, nr. 4597 del 14 febbraio 2023). Pertanto, alla luce del – discutibile – principio espresso dalla Corte di Cassazione, eventuali spese concernenti l’estinzione anticipata del finanziamento non debbono includersi nel calcolo in questione.
Inoltre, non ci si può esimere dal segnalare come sia indubbiamente causa di nullità del contratto l’anatocismo applicato al di fuori degli stringenti presupposti di legge “usurae usurarum” (art. 1283 c.c.).
Il codice penale non sanziona soltanto le condotte certamente usurarie, che si verificano qualora, come già detto, sia superato il tasso presuntivo, ma anche quelle inerenti a un tasso che, anche se inferiore a tale limite, risulta comunque sproporzionato rispetto alla prestazione di denaro o di altra utilità o all’opera di mediazione nel caso in cui chi li ha dati o promessi versi in condizioni di difficoltà economica o finanziaria (art. 644, comma 3, c.p.).
In tema di usura in concreto non si evidenziano molti contributi della giurisprudenza di legittimità, osservato che la prima decisione è ravvisabile nella sentenza nr. 18778 del 25 marzo 2014 della Seconda Sezione Penale della Cassazione, intervenuta quasi vent’anni dopo l’introduzione del reato nell’ordinamento giuridico italiano.
Tale sentenza è fondamentale ai fini di una migliore comprensione dei rigorosi presupposti affinché il tasso possa essere considerato “in concreto” di usura.
È necessario, in primo luogo, che gli interessi pattuiti, pur se inferiori al tasso soglia di cui al comma 1 dell’art. 644 c.p. – rispetto al quale l’usura in concreto si pone, dunque, in rapporto di sussidiarietà – siano sproporzionati avuto riguardo alle concrete modalità del fatto e al tasso medio praticato per operazioni similari. In secondo luogo, è necessario che il soggetto passivo versi in condizioni di difficoltà economica o finanziaria.
Proprio su tale elemento è ravvisabile lo sforzo interpretativo della Corte, ben consapevole chelaratiodella norma risieda nell’esigenza di assicurare una particolare tutela a chi si trovi, al momento dell’accesso al credito, in condizioni svantaggiate. In tal caso, l’approfittamento delle condizioni della vittima è elemento costitutivo del reato.
La Cassazione ha stabilita che la difficoltà finanziaria deve valutarsi alla stregua dell’insieme delle attività del soggetto passivo, che deve essere caratterizzata da una complessiva carenza di beni e di risorse.
La Corte prosegue nell’esegesi della norma stabilendo come la valutazione della situazione di difficoltà debba essere fatta non in senso meramente soggettivo – ossia sulla base delle valutazioni personali della vittima, opinabili e di difficile accertamento a posteriori – bensì in senso oggettivo – ossia valorizzando “parametri desunti dal mercato”.
Quanto all’elemento soggettivo, si è precisato che quest’ultimo deve altresì investire lo stato di difficoltà della vittima.
Effettuate tali brevi premesse in ordine al reato che presuppone necessariamente il vizio del contratto da valutarsi sul versante civilistico, ci si deve chiedere quale che siano gli istituti applicabili ai fini di ottenere un rimedio satisfattivo per il contraente eventualmente leso, nonché l’onere della prova e i possibili risvolti processuali.
La prima norma che deve essere evocata è quella concernente le ipotesi di nullità del contratto (art. 1418 c.c.), ravvisabili qualora lo stesso, in alternativa: sia privo di uno dei requisiti ex art. 1325 c.c.; sia contrario a norme imperative; sia sorretto da causa illecita o motivi illeciti; sia carente con riguardo ai requisiti dell’oggetto indicati nell’art. 1346 c.c.
In ordine alla possibile contrarietà a norme imperative, si deve segnalare il combinato disposto tra la suddetta norma penale e l’art. 1815, comma 2 c.c., che prescrive l’inesigibilità – assoluta – degli interessi usurari e la conseguente nullità delle clausole nella misura in cui prevedono gli stessi (caso di nullità espressamente previsto dalla legge).
Ci si deve domandare se nel concetto di “interessi di usura” enunciati dal codice civile rientrino altresì quelli lesivi in concreto della disposizione incriminatrice penale: in caso di risposta affermativa, previa accurata istruzione probatoria nel giudizio civile, le clausole debbono essere dichiarate nulle.
In caso di risposta negativa, si deve meglio analizzare il rapporto tra la contrarietà a norme imperative e le fattispecie di reato, chiedendosi se le violazioni di disposizioni penali determinino in automatico la nullità del negozio conseguentemente travolto dalle stesse.
Da una lettura superficiale si giungerebbe a una immediata risposta affermativa, rilevando che l’illecito penale vincola i soggetti più di qualsivoglia altra disposizione positiva.
In realtà, alla commissione di un reato non sempre sembra conseguire la nullità del contratto stipulato in occasione dello stesso: si pensi al caso della truffa, alla quale, sul versante civilistico, ben potrebbe conseguire un’ipotesi di annullabilità per dolo ai sensi degli articoli 1427 e 1439 c.c. e non di nullità generale con effetti ex tunc per violazione di norme imperative.
In tal caso, la riflessione sul concetto di norma imperativa deve essere ristretta alle fattispecie positive inerenti a diritti indisponibili: osservata la vicenda da questo punto di vista è possibile sostenere che il reato di truffa – procedibile a querela – sia un’ipotesi di disponibilità dell’azione penale in concreto. Parimenti, il contratto stipulato in occasione della commissione del reato di cui all’art. 640 c.p. è produttivo di effetti qualora non sia oggetto di specifica azione legale volta all’annullamento dello stesso per vizi del consenso e, in ogni caso, l’efficacia dell’eventuale pronuncia costitutiva non sarebbe retroattiva ma ex nunc.
Quanto ai reati procedibili di ufficio, come per esempio l’usura, non parrebbe infondato sostenere che, osservata la loro particolare gravità e la decisione del legislatore di non assoggettare la sanzionabilità degli stessi a una specifica istanza punitiva della vittima, riguardino sempre situazioni giuridiche soggettive indisponibili e, pertanto, il negozio concluso conseguentemente a un delitto procedibile di ufficio sia sempre nullo per violazione di norme imperative.
Ci si deve infine domandare se, qualora si voglia assoggettare la nullità di un contratto ex art. 1418, comma 1, c.c. alla violazione un precetto penale, sia necessaria la prova nel giudizio civile dell’elemento soggettivo del reato, consistente, nel caso dell’usura “in concreto”, nella consapevolezza della situazione di difficoltà economico-finanziaria della vittima.
L’onere della prova di tale presupposto psicologico graverebbe, ai sensi dell’art. 2697 c.c., sul soggetto leso dal vincolo negoziale e sarebbe difficilmente assolvibile dall’attore in sede di giudizio civile, osservate, in particolar modo, la tassatività dei mezzi di prova e l’ostatività dei medesimi alla dimostrazione di situazioni psichiche, anche se oggettivamente desumibili da situazioni di fatto ravvisabili nel mondo sensibile.
Alla luce delle suddette argomentazioni, non pare così pacifico includere tutte le fattispecie di reato nel novero delle norme imperative la cui violazione determina inequivocabilmente la nullità del conseguente negozio giuridico.
Altro istituto che potrebbe essere invocato ai fini della risoluzione della questione risulta la nullità derivante dall’illeceità della causa ai sensi dell’art. 1343 c.c. L’istituto della nullità per difetto di causa – aderendo alla teoria della causa in concreto rammentata dalla più recente giurisprudenza di legittimità – è volto a tutelare la specifica ragione giuridica che sorregge il vincolo negoziale e può essere soggetto a un’interpretazione connotata da maggiore ampiezza, osservato che la causa può ben investire, oltre a proibizioni legislative (norme imperative), regole morali che possono mutare in base al contesto sociale individuabile“semper in conventionibus non solum quid liceat considerandum est, sed et quid honestum sit”.
In ogni caso, l’istituto de quo, con riferimento alla morale e all’ordine pubblico, ha una base d’indeterminatezza che costringe ad una cauta opera di determinazione dei principi direttivi e di analisi della fattispecie concreta per la sua qualificazione. Dalla relazione del Ministro Guardasigilli è facilmente intuibile l’obiettivo perseguito dal legislatore che funge da criterio di interpretazione teleologica della norma “è stato detto da qualcuno che causa illecita deve equivalere a causa mancante, in un sistema che eleva a causa del contratto lo scopo ritenuto degno di tutela dall’ordinamento giuridico. Ciò è vero se si ha riguardo al concetto di causa astratta e tipica di un contratto; ma in ogni singolo rapporto deve essere controllata la causa che in concreto il negozio realizza, per riscontrare non solo se essa corrisponda a quella tipica del rapporto, ma anche se la funzione in astratto ritenuta degna dall’ordinamento giuridico possa veramente attuarsi, avuto riguardo alla concreta situazione sulla quale il contratto deve operare” (v. Relazione del Ministro Guardasigilli Dino Grandi al Codice Civile del 4 aprile 1942, pt. 614).
Alla stregua di dette considerazioni forse pare ancor più immediato sostenere la nullità del contratto contenente tassi di interessi volti in concreto a ledere una situazione giuridica in capo al contraente debole, osservato che l’ordinamento positivo non intende tutelare tale contegno dannoso. Il principio di diritto di tutela del contraente più debole è facilmente desumibile da diverse disposizioni codicistiche (v., per esempio, art. 1341, comma 2, c.c. e 1370 c.c.).
Certo che i risvolti dell’istituto della nullità per illiceità del requisito causale potrebbero essere ben più gravosi di quelli relativi del contratto stipulato contra legem, rilevato che per quest’ultimo non sarebbe da escludere un’ipotesi di nullità parziale ex art. 1419, comma 1, c.p., mentre, diversamente, con riguardo all’illiceità della causa in concreto parrebbe maggiormente complesso contenere la stessa unicamente alle clausole nocive.
Infine, non ci si può esimere dal segnalare, quale rimedio esperibile per la questione esaminata, la rescissione per lesione disciplinata dall’art. 1448 c.c., rilevato che tale tipo negoziale è commutativo (osservata la certezza delle prestazioni dovute) e non aleatorio (in quest’ultimo caso, la rescindibilità per lesione sarebbe esclusa per l’espressa previsione normativa di cui all’art. 1448, comma 4, c.c.).
La norma è indirizzata alla tutela del possibile squilibrio oggettivo del contratto, che si realizza qualora dipenda dalla situazione di bisogno di un contraente e tale situazione – che deve perdurare nel tempo – funge da presupposto indefettibile per la proposizione della domanda in giudizio.
Il concetto di stato di bisogno non può comprendere solamente l’insufficienza finanziaria della parte, ben potendo altresì dipendere dal concorso di altre circostanze esorbitanti il campo economico.
Un problema potrebbe essere rappresentato dal limite oggettivo di inammissibilità dell’azione disciplinato dall’art. 1448, comma 2, c.c.: lo squilibrio delle prestazioni deve essere superiore alla metà del loro valore al tempo del contratto e deve perdurare sino al momento della proposizione della domanda.
La Corte di Cassazione ha precisato che “l’azione generale di rescissione per lesione richiede la simultanea esistenza di tre requisiti: l’eccedenza “ultra dimidium” della prestazione rispetto alla controprestazione, lo stato di bisogno del contraente danneggiato e l’approfittamento di esso da parte dell’altro contraente. Lo stato di bisogno, pur potendo consistere anche in una situazione di difficoltà economica o nella contingente carenza di liquidità, non può prescindere da un nesso di strumentalità tale da incidere sulla libera determinazione a contrarre, nel senso che le momentanee criticità economiche devono costituire il motivo per cui è stata accettata la sproporzione tra le prestazioni” (Cass. Civ. Sez. II, nr. 15338 del 12 giugno 2018).
Qualora si voglia optare per la proposizione di detta domanda, si deve ricordare che, diversamente dalla nullità, il contratto produrrebbe i suoi effetti sino all’eventuale pronuncia della sentenza definente il giudizio e che, soprattutto, l’azione si prescrive in un anno dall’avvenuta conclusione del contratto ovvero in cinque anni se il negozio è stipulato in occasione della commissione di un illecito penale (art. 1449, comma 1, c.c.), diversamente dall’azione di nullità che è imprescrittibile.