Corso Zanardelli, 32 - Brescia

(Dott. Antonino La Lumia)
La sentenza in commento si iscrive a pieno titolo nel nuovo filone giurisprudenziale, che, inaugurato dalle “storiche” sentenze della Suprema Corte nn. 8827 e 8828 del 2003 e da quella, di poco successiva, n. 233 della Consulta [1], ha ricondotto il risarcimento del danno alla persona ad un sistema bipolare, basato su una rilettura costituzionalmente orientata dell’art. 2059 c.c.
Molti autori, a tal riguardo, hanno parlato di “nuovo articolo 2059” ed effettivamente non si può che concordare sulla rilevanza e sul forte impatto, che tali pronunce mostreranno a breve sugli orientamenti, finora consolidati, delle Corti di merito e, più in generale, sul tradizionale inquadramento delle voci di danno nel caso di sinistro con conseguenze dannose per le persone.
Com’è noto, infatti, prima delle sentenze in parola, il sistema risarcitorio imperante nel nostro ordinamento risultava cristallizzato, se non proprio ingessato, nelle sue principali componenti: ragionando in termini generali, erano, infatti, sostanzialmente tre le voci di risarcimento che trovavano diritto di cittadinanza nelle aule giudiziarie e si dimostravano ben individuate anche le norme di riferimento per ciascuna di esse.
In primo luogo, com’è ovvio, il danno patrimoniale, costituito dalla perdita di reddito o dalle spese di varia natura originate dal sinistro e basato sulla norma cardine nel sistema di responsabilità per illecito extracontrattuale, ovvero l’art. 2043 c.c., con il suo generale principio del neminem laedere.
Ancora, il danno biologico [2], cioè quella “menomazione dell’integrità psicofisica della persona in sé e per sé considerata, in quanto incidente sul valore dell’uomo in tutta la sua concreta dimensione, che non si esaurisce nella sola attitudine a produrre ricchezza, ma si collega alla somma delle funzioni naturali afferenti al soggetto nell’ambiente in cui la vita si esplica, ed aventi rilevanza non solo economica, ma anche biologica, sociale, culturale ed estetica”. [3]
Esso è stato da sempre qualificato come “dannoevento” a carattere prioritario [4], in quanto si presenta come primo effetto della condotta illecita, mentre il danno patrimoniale e quello non patrimoniale sono state ritenute conseguenze ulteriori ed eventuali.
La risarcibilità di tale danno, al quale spesso nella terminologia corrente è stato associata, come sinonimo, l’espressione “danno alla salute” [5], fu riconosciuta dalla giurisprudenza in virtù del carattere immediatamente precettivo dell’art. 32 Cost., da intendersi come ammissivo di un diritto soggettivo alla salute, al quale veniva strettamente connesso l’art. 2043 c.c., data l’impossibilità di applicare l’art. 2059 c.c. per l’interpretazione data alla relativa riserva di legge.
Per tali ragioni, si è ritenuto il danno biologico risarcibile in modo autonomo, indipendentemente dalla concreta possibilità di risarcire quello patrimoniale (subordinata alla prova della diminuzione patrimoniale o della perdita di guadagno) e quello non patrimoniale (per la quale era necessaria, come detto, la sussistenza delle condizioni dettate dall’art. 2059 c.c.).
Infine, il danno morale subiettivo, identificato storicamente con quel patema d’animo e quelle sofferenze di ordine psichico e strettamente personali, che il soggetto è costretto a subire in conseguenza dell’illecito e che sono in qualche modo presunti dalla legge: si tratta del danno non patrimoniale per antonomasia, il cui risarcimento è finalizzato a lenire, attraverso lo strumento del denaro, i dolori sofferti, sempre che nel fatto illecito altrui fossero ravvisabili gli estremi del reato.
Infatti, l’art. 2059 c.c., norma di copertura per tale risarcimento veniva letta in necessario combinato disposto con l’art. 185 c.p., limitando il riconoscimento di una somma di denaro al solo caso di fattoreato: la condanna al pagamento, cioè, serviva anche a rafforzare la sanzione penalistica principale, cui soggiaceva il colpevoledanneggiante [6].
Tale consolidato sistema è stato rotto, come visto, dalle citate sentenze dell’estate 2003, alle quali quella in commento si allinea pienamente.
I giudici della Suprema Corte ribadiscono, in principio, la necessità che, nella liquidazione del danno biologico e di quello morale, si faccia riferimento al criterio equitativo di cui agli artt. 2056 e 1223 c.c. e, nel contempo, si dia la giusta rilevanza alle circostanze del caso concreto, fra cui specificamente la gravità delle lesioni, gli eventuali postumi permanenti, l’età, l’attività espletata, le condizioni sociali e familiari del danneggiato.
La bontà di tale criterio di liquidazione viene confermata dalla Corte anche a seguito del nuovo orientamento sulla portata dell’art. 2059 c.c. e ciò sulla base di un ben preciso ed argomentato iter logicogiuridico.
In particolare, vengono dapprima fissati due principi fondamentali, ovvero da un lato che il concetto di danno non patrimoniale non si può assimilare in maniera riduttiva con quello di danno morale subiettivo, e dall’altro che la lettura costituzionalmente orientata dell’art. 2059 c.c. determina che il legislatore non possa restringere ai soli casi previsti dalla normativa ordinaria il risarcimento della lesione dei valori della persona ritenuti inviolabili dalla Carta Costituzionale.
Da tali assunti, la Corte fa discendere, in linea col nuovo orientamento, che non si ravvisa più l’esigenza di appigliarsi al dettato dell’art. 2043 c.c., attraverso la tesi del “danno evento” o del tertium genus di danno accanto al patrimoniale ed al morale subiettivo: la responsabilità extracontrattuale, al contrario, deve risolversi nell’alternativa danno patrimoniale (art. 2043 c.c.) – danno non patrimoniale (art. 2059 c.c.) [7].
Alla luce di tali considerazioni, l’inquadramento del danno biologico appare più che scontato, in quanto, utilizzando le stesse parole dei giudici di legittimità, “quale danno alla salute, rientra a pieno titolo, per il disposto dell’art. 32 Cost., tra i valori della persona umana considerati inviolabili dalla Costituzione e poiché detta norma non solo ha efficacia precettiva nei confronti dello Stato, ma è anche immediatamente efficace tra i privati, ne consegue, per coerenza del sistema, che la sua tutela è apprestata dall’art. 2059 c.c. e non dall’art. 2043 c.c., che attiene esclusivamente ai danni patrimoniali”.

La liquidazione del danno non patrimoniale nel caso di morte del soggetto leso durante il giudizio
Dopo la riflessione su tali assunti di carattere generale, la Corte si sofferma sulle questioni più rilevanti poste dalla fattispecie al suo esame, riguardanti in particolare la liquidazione del danno biologico e morale [8].
La sentenza si mostra fortemente critica nei confronti della decisione adottata dal giudice di appello, nella misura in cui questa ha ritenuto congrua la liquidazione operata in primo grado “tenuto conto delle complessive condizioni psicofisiche del soggetto”: la Corte ritiene, infatti, quest’ultima una motivazione apparente, in quanto non consente di ricostruire il percorso argomentativi seguito dal giudice per determinare il quantum del risarcimento.
L’impugnata pronuncia viene “demolita” anche sotto altro profilo: il giudice di appello, infatti, avrebbe dovuto tenere in giusta considerazione la circostanza della morte del danneggiato durante il giudizio, ancorando la liquidazione dei danni non alle speranze di vita, ma all’effettività della stessa.
Anche in tal caso, la Suprema Corte illustra molto efficacemente le motivazioni dei suoi dicta, che, complessivamente considerati, si mostrano condivisibili.
Il punto di partenza è dato dalla considerazione di carattere generale che, laddove al momento di liquidare il danno biologico, il soggetto leso sia morto per causa non ricollegabile direttamente alle conseguenze del sinistro, in luogo della valutazione c.d. probabilistica deve trovare applicazione quella che tiene conto del danno concretamente prodottosi e richiesto dagli eredi iure successionis: ciò, in quanto proprio il decesso, avvenuto prima della liquidazione, consente di rapportare all’effettiva durata della vita l’incidenza negativa determinata sulla stessa dall’illecito subito.
A supporto di tale impostazione, i giudici di legittimità ragionano anche a contrario: assumere, infatti, che il risarcimento del danno biologico, cui consegua la morte prima della decisione definitiva, debba esser riconosciuto integralmente, significherebbe far venire meno uno degli elementi costitutivi del danno risarcibile, ovvero la durata del danno medesimo: questa, infatti, risulterebbe del tutto ipotetica, potendosi invece, nel caso di specie, rapportarsi ad un dato assolutamente certo.
Del resto, come riconosciuto dalla stessa sentenza in commento, escludere il carattere necessario del fattore tempo nel risarcimento del danno equivarrebbe ad ammettere che esso sia dovuto per intero già per il solo fatto del verificarsi del sinistro, quindi anche nell’ipotesi più che frequente di morte istantanea o pseudoistantanea del danneggiato: com’è noto, però, la giurisprudenza di legittimità ormai pacificamente [9] riconosce il diritto il diritto al risarcimento solo qualora tra il momento del sinistro e la successiva morte del soggetto leso sia trascorso un “apprezzabile lasso di tempo”, con conseguente liquidazione in relazione al periodo di tempo in cui la menomazione psicofisica è perdurata.
Per tali ragioni, la Corte, con apprezzabile chiarezza, sottolinea che le stesse categorie del danno biologico temporaneo e di quello permanente entrerebbero in crisi, una volta che non si attribuisse la giusta importanza al fattore tempo nella liquidazione di tale tipo di danno.
La ricostruzione appena illustrata viene giustamente estesa anche al danno morale subiettivo, che risulta all’evidenza maggiore se si protrae per tutto il resto della vita media rispetto all’ipotesi in cui le sofferenze ed il turbamento d’animo vengano meno qualche mese od anno dopo, per morte del danneggiato prima del termine della vita media, secondo le probabili speranze di vita.
Anche in tal caso, dovrà essere il giudice di merito a tener conto che nel periodo immediatamente successivo al fatto illecito il patema d’animo è più intenso, ma la valutazione dovrà comunque valorizzare il principio per cui il danno morale non può spiegare mai effetti istantanei, che sorgano e si esauriscono in un solo momento: infatti, anche tale danno, che rientra a pieno titolo nella categorie di quelli non patrimoniali, presuppone la necessaria verifica della presenza di tutti gli elementi in cui si articola l’illecito extracontrattuale e, dato che il risarcimento attiene alle conseguenze dannose, la durata di queste ultime gioca un ruolo determinante nella liquidazione.

Precedenti
La giurisprudenza di legittimità appare pacifica nell’affermare i principi dedotti in sentenza, sia in ordine ai pregiudizi di carattere patrimoniale, sia con riguardo al danno biologico ed, in generale, alla categoria dei danni non patrimoniali: in tal senso, si vedano Cass. 16 giugno 2003, n. 9620; Cass. 4 aprile 2003, n. 5332; Cass. 24 febbraio 2003, n. 2775; Cass. 11 luglio 2000, n. 9182; Cass. 7 aprile 1998, n. 3561.
§
[1] Le citate pronunce sono state pubblicate sulle più importanti riviste giuridiche, fra cui si segnalano: Foro It., 2003, (I, 2201) (I, 2272) e D&G, 2003, n. 24 (pag. 22) e n. 29 (pag. 38).
[2] La nascita del danno biologico si deve ad un’intuizione giurisprudenziale del Tribunale di Genova (sent. 25.05.1974), che ruppe ogni legame con l’impostazione tradizionale, secondo cui il danno all’integrità fisica della persona consisteva unicamente nella perdita economica scaturente dalla diminuzione della capacità economica. Tale innovativo orientamento, che ebbe riconoscimento anche dalla giurisprudenza costituzionale (Corte Cost. n. 87/79 e 88/79) e da quella di legittimità (Cass. n. 367/81), affermava che dovesse essere risarcita la menomazione dell’integrità psicofisica in sé considerata, indipendentemente dalla concreta incidenza sulla capacità lavorativa e sul reddito.
[3] Tra le innumerevoli pronunce che riportano tale definizione si segnalano: Cass. 6 aprile 1983 n. 2396, in Riv. Giur. Circ. Trasp., 1983, 713; Cass. 9 dicembre 1994 n. 10539, ivi, 1995, 573; Cass. 16 settembre 1995 n. 9972 e Cass. 19 settembre 1995 n. 9328.
[4] V., Cass. 16 settembre 1995 n. 9772.
[5] Sulla distinzione tra danno biologico e danno alla salute si è soffermata anche la Corte Costituzionale nella celeberrima sentenza n. 184 del 16 luglio 1986, in Foro It., 1986, (I, 2053). Da segnalare, altresì, la posizione critica sulla riconduzione tout court del danno biologico al concetto di danno alla salute, riportata in BUSNELLI, Danno biologico e danno alla salute, nel volume La valutazione del danno alla salute, a cura di Bargagna e Busnelli, Cedam, 1986, pag. 6: il primo, infatti, esprimerebbe un concetto medicolegale, ricollegabile alla menomazione somatopsichica o lesione personale, laddove il secondo sarebbe associato ad un concetto squisitamente giuridico, ovvero alla violazione del diritto menzionato dall’art. 32 Cost ed al quale fa riferimento la legislazione civile diretta all’attuazione di tale norma (ad es., la Legge 23 dicembre 1978 n. 833, istitutiva del Servizio Sanitario Nazionale).
[6] È interessante notare come assai risalenti siano le origini di tale limitazione. In particolare, la connessione tra risarcimento del danno morale e rilevanza penale del fatto generatore risale al diritto romano, per il quale non si ammetteva responsabilità per danni morali che non derivassero direttamente da iniuria: in questi casi, il soggetto leso esercitava la c.d. actio iniuriarum aestimatoria e poteva ottenere l’aggiudicazione di una somma di denaro di ammontare variabile, in quanto dipendente dalla stima che l’attore faceva del danno patito.
[7] Del resto, proprio la citata sentenza n. 8827/03 aveva affermato testualmente la necessità di ricondurre “la tutela risarcitoria della persona al sistema bipolare del danno patrimoniale e di quello non patrimoniale (comprensivo del danno biologico in senso stretto, del danno morale soggettivo come tradizionalmente inteso e dei pregiudizi diversi ed ulteriori perché costituenti conseguenza della lesione di un interesse costituzionalmente protetto)”.
[8] Appare opportuno segnalare una sentenza della Suprema Corte di poco precedente a quello in commento (3 ottobre 2003, n. 14767), che affrontando le medesime questioni, ma sotto il profilo del danno patrimoniale, giunge ad una soluzione sostanzialmente analoga. Infatti, la Corte afferma in maniera netta che “Non ha senso logico disquisire sulla causa della morte, giacché un diritto di credito per i danni che un soggetto è destinato a subire a causa dell’incapacità di guadagno durante la propria vita futura non è configurabile per la parte di vita non vissuta. Né è sostenibile come prospettano i ricorrenti che tale diritto di credito fosse stato comunque definitivamente acquisito, dopo le lesioni e durante il periodo di sopravvivenza, in relazione alla durata probabile della vita anziché a quella effettiva e nota. E ciò non solo perché la liquidazione del credito deve come pure è ovvio essere effettuata, tutte le volte che sia possibile, sulla scorta di dati noti, e dunque in base all’effettiva (ed a causa del decesso tragicamente certa) durata della vita e non sulla base del dato incerto costituito dalla durata probabile della vita futura, cui la liquidazione del danno é inevitabilmente ancorata se il soggetto sia in vita; ma per la ragione assolutamente assorbente che un danno a carico di un determinato soggetto presuppone che quel soggetto esista (o venga in vita), non essendo giuridicamente configurabile un danno risarcibile in favore della persona deceduta per il tempo successivo alla sua morte. Dalla quale potranno bensì discendere, per il tempo a venire e purché la morte sia eziologicamente legata alle lesioni, danni (anche morali) dei prossimi congiunti ovvero di persone legate all’estinto da particolari vincoli affettivi o in posizioni tali da giustificare aspettative di erogazioni economiche, ma mai, in nessun caso, diritti a favore del defunto, la cui morte preclude la stessa possibilità che a suo favore sorgano diritti di sorta, dunque neppure trasmissibili iure hereditario.”
[9] Fra le più recenti pronunce in tal senso, si segnala, per la chiarezza espositiva e la completezza della motivazione, Cass. 16 maggio 2003, n. 7632, laddove, in particolare, ribadisce che “nel caso in cui intercorra un apprezzabile lasso di tempo tra le lesioni colpose e la morte causata dalle stesse è configurabile un danno biologico risarcibile subito dal danneggiato, da liquidarsi in relazione all’effettiva menomazione dell’integrità psicofisica da lui patita per il periodo di tempo indicato, ed il diritto del danneggiato a conseguire il risarcimento è trasmissibile agli eredi che potranno agire in giudizio nei confronti del danneggiante iure hereditatis”.